L'orvieto, il vino dei Papi e degli artisti

Federico Sciurpa
Dentro una bottiglia di vino c’è il concentrato di una civiltà. Il cielo, la terra e l’uomo. Uomini che lavorano altri che ne godono. Anche grandi uomini. La storia dell’Orvieto – unica e accattivante, da scoprire magari con un tour estivo - ne è ricchissima. Parliamo del vino dei papi e degli artisti. Una tradizione viticola antica, come poche altre a livello italiano. Risale ai nostri antenati, gli Etruschi, popolo godereccio che il vino non solo lo sapeva apprezzare, ma anche commerciare. L’Orvieto nasce come vino “amabile” (oggi lo consideriamo con questo termine), con dei residui zuccherini, cioè. Le cantine profonde e fredde scavate nel tufo – che ancora si possono ammirare - non permettevano, infatti, una fermentazione completa dell’uva. Insolita era la vinificazione: l’uva si pigiava a livello del suolo, il mosto colava a fermentare (per diversi mesi) nei locali tufacei e dopo la svinatura veniva trasferito nelle cantine poste ancora più in basso per l’affinamento. La storia dell’Orvieto comincia così, legata alle braccia degli etruschi, alla struttura unica della città e alla sua terra. Avvincente è poi anche lo sviluppo di questo bianco che per decenni ha rappresentato, da sola, l’immagine enologica dell’Umbria del mondo, prima dei più recenti fenomeni Lungarotti (Giorgio, imprenditore illuminato, ha guidato la riscossa enologica della regione), Sagrantino e “SuperUmbri”. Numeri ancora straordinari quelli dell’Orvieto, sottovalutati o persino invisibili in un mondo preso dalle mode, dalle tendenze, alle quali certo anche la Doc Orvieto si è ora adeguata ritoccando il disciplinare nel 2003. Oggi sono venti milioni le bottiglie dell’Orvieto commercializzate, per una produzione media totale che ogni anno si attesta intorno ai 150mila ettolitri. L'Orvieto è insomma uno dei vini bianchi italiani più conosciuti nel mondo e rappresenta da solo circa tre quarti della produzione di vino Doc dell'Umbria. Metà delle bottiglie rimane in Italia, il resto va nel mondo: Gran Bretagna e Germania in primis, negli Stati Uniti poi, è uno dei primi cinque vini italiani esportati con circa due milioni di bottiglie l’anno.
Il vino caro agli Etruschi ha percorso diversa strada negli ultimi quaranta anni, ma ha anche passato stagioni imbarazzanti per l’iperproduzione e i prezzi stracciati che hanno creato prodotti anonimi. Oggi si registra una importante rinascita dell’Orvieto con produzioni più curate, di qualità. D’altra parte, questo vino dei papi e degli artisti, di fascino ne conserva. Nel medioevo e nel Rinascimento fu uno dei vini preferiti alla Corte pontificia. Paolo III Farnese ne era innamorato e lo preferiva a ogni altro. Il Pinturicchio quando dipinse a Orvieto, mise il vino addirittura nel contratto. Pretese (tutto scritto) che gli fornissero "tanto vino quanto fosse riuscito a berne". Era in buona compagnia il Pinturicchio. Anche Luca Signorelli nel 1500 per la realizzazione degli affreschi, stipulò un contratto dove era scritto che per “esibire” la sua arte in Duomo, avrebbero dovuto consegnargli ogni anno 12 some di vino, mille litri cioè (fate voi la media giornaliera). E poi Garibaldi, Enrico Fermi (vedi pezzo a fianco): l’Orvieto è stato sempre apprezzato. E’ un bianco da rivalutare, d’altra parte, anche alla luce del nuovo disciplinare. Questo non ha certo stravolto l’identità di un vino di territorio che ha come “base“ il Grechetto di Orvieto (non può scendere sotto il 40 per cento) e il Trebbiano (dal 20 al 40 per cento). Tradizionalmente l’uvaggio trova la sua spalla acida nel Verdello. L’Orvieto nella versione secca va di massima abbinato con crostacei, frutti di mare, ma anche con carni bianche. Di certo pasteggerete con un bicchiere di storia.

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