Bere col territorio in bottiglia

Federico Sciurpa
Alla sagra per mangiare. E bere. Al secondo aspetto però, quello del vino (ovvio) si dà – di media – una importanza relativa. Non per cattiva volontà. Da una parte gli organizzatori tendono a privilegiare il piatto, che è già una impresa e, insieme, le esigenze di cassetta. Dall’altro chi si siede a tavola si fida di ciò che “passa la festa”: non siamo al ristorante (questo il comune sentire),e quindi si prende quello che c’è; sarà giusto così.
In mezzo ai due comportamenti c’è una verità legata alla conoscenza del buon bere ed è di questa che ci occupiamo. La sagra, ogni sagra, avrà così un altro sapore. Quello del territorio. Non solo nel piatto ma anche nel bicchiere. La regola principale, se così vogliamo definirla, è quella che ogni organizzatore dedichi un briciolo di budget, tempo e competenza alla scelta del vino. Visto che si tratta di un “acquisto di quantità”, ci si può sbizzarrire con una etichetta del posto (ne basta una, al massimo due e poi ci spieghiamo meglio), la più adatta a sposare la tipologia della sagra, senza spendere troppo e –di conseguenza – evitando che la ricaduta si senta sul portafogli del pubblico che va a tavola. Per arrivare a ciò basta un accordo con una cantina sociale o del posto. C’è già chi lo fa, sempre più sagre per la verità hanno accettato questa trasformazione e il risultato in termini di ricaduta qualitativa e investimento sul futuro, ne risulta notevole. L’aspetto infatti, non è solo pratico e commerciale, ma anche culturale, storico. Una sagra nasce – e solo chi la organizza lo sa sulla propria pelle, noi possiamo solo immaginarlo – con dei requisiti riferiti al legame con quella terra, ad anni di lavoro sul prodotto, ai riconoscimenti ottenuti. Storia di un cibo e quindi di una festa ad esso legata, significa però – ed è questa l’innovazione su cui pigiare - abbinamento con un vino del posto. A Selci fanno da una vita, tanto per capirci, la sagra della Ranocchia e chi scrive, “ranocchiaro” tiberino, ci andava con i calzoncini corti: beh, i nostri nonni con le ranocchie ci abbinavano ciò che la terra regalava: un vino bianco fragrante e profumato, poco strutturato a base di trebbiano e malvasia. Sul posto ci sono cantine che lo producono.
Prendete l’oca arrosto di Bettona: la pensiamo col vino a base di sangiovese dei Colli Martani, bello strutturato e che invita e riberlo, proprio come si mangiava un tempo. Abbinamenti per tradizione insomma e la tradizione dell’Umbria è quella contadina nella quale il vino è stato necessariamente considerato come alimento. Il passo avanti è certo nel lavoro di qualità dei produttori umbri, una evoluzione che esalta il principio di mettere in tavola le “cose nostre”, diventate eccellenti. Scegliere quindi un buon vino per una sagra, non significa svilire il senso di una sagra che promuove il cibo, ma anzi valorizzarlo nel nome delle tradizioni.
Meglio è se quel nettare di ottobre viene proposto in bottiglia. Sappiamo bene che le sagre in genere non trovano il plauso (eufemismo) di chi ha una attività di ristorazione, ma giustamente – e devono essere vere – ci sono e devono svolgersi con tutti i crismi igienico sanitari e (aggiungiamo noi) buon senso e voglia di riuscire. Così una bottiglia “fa più cena”, intesa come etichetta di una cantina con la quale gli organizzatori hanno stretto un accordo. Significa spendere meno di quanto si pensi perché oggi molti produttori mettono in commercio vini doc, docg e igt di qualità diverse e quella “base” (è una “parolaccia” per gli addetti, ma rende l’idea per il pubblico che di vino non sa molto) si adatterà mediamente bene a ogni sagra. Per i più esigenti, basterà mettere anche a disposizione una etichetta più importante. In molte sagre succede questo. Magari i ricavi sul vino saranno minori, ma ciò che si guadagna in immagine e sostanza anche per gli anni a seguire, non ha prezzo.
Questa è la via per bere bene e, soprattutto, bere quanto basta ad una sagra. Di fondo vanno evitati fiumi di vino che nulla legano con quel cibo, il cui risultato è magari quello di abbassare il prezzo di un menù di un euro. Libero ognuno di fare come vuole, la raccomandazione a chi organizza e a chi poi consuma, è di conosce, sapere che cosa si beve. La sagra deve diventare di pari passo, quella del cibo e del vino che tradizionalmente lo ha accompagnato. Un segno culturale e storico che resta.
Provare per credere.

Federico Sciurpa è sommelier Ais (Associazione Italiana Sommelier), degustatore ufficiale Ais e relatore abilitato Ais (per chi ha la bontà di chiamarlo) all’insegnamento della lezione Umbria Lazio

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