D'Alessandro racconta la sua latitanza


AREZZO – Da dove cominciamo? Più di 30 anni da latitante sono lunghi da raccontare. Figuriamoci da vivere. Rolando D’Alessandro, ieri Felice, comincia a vivere “di nascosto” il 15 dicembre 1975. La sera della sua evasione, assieme a Franci e Fianchini, dal carcere di Arezzo. Corre verso la ferrovia. I tre si dividono. “Prendiamo il treno per Orte – ricorda D’Alessandro - Non ho mai corso come quella notte. La galera infiacchisce. La vista si abbassa. La pelle diventa biancastra e insana. Perdi il fiato. Metti su pancia o dimagrisci, come me, che da settanta ero sceso a meno di sessanta chili. Ma quella notte correvo leggero sotto la pioggia, nel freddo. Corsi per tutta la notte.
Sulle traversine, lungo la massicciata. Al passaggio di un treno nascosto fra i cannicci. Evitai un posto di blocco dei carabinieri, piazzato in una curva della statale vicinissimo ai binari. Li vedevo. Sentivo le voci. Si muovevano fra le luci lampeggianti con i mitra imbracciati.”
D’Alessandro forse nn è solo. Con lui probabilmente c’è Fianchini, non Franci che secondo la ricostruzione dell’evasione che ci ha fatto D’Alessandro scese per ultimo dalla corda dell’evasione.
“Corremmo fino ad un paesino vicino a Roma – racconta l’ex latitante - Eravamo stanchi oltre lo sfinimento. E non volevamo che ci prendessero. Eravamo evasi. Ci inseguivano. Dovevamo correre. Correre più di loro. Correre e basta. Salimmo su di una corriera di pendolari. Non avevamo soldi e non pagammo. Non eravamo gli unici. Tirammo su un giornale da un cestino. La notizia dell’evasione era in quarta pagina. Cominciammo a telefonare. Finché non trovai una compagna di un collettivo di lotta. Colpo di fulmine. Era bella. Io avevo il fascino del ribelle fuggiasco. Fascino della rabbia, della voglia di vivere. Ci accolse. Ma non poteva durare.”
Non durò. Infatti. “Mi disse – è ancora D’Alessandro a parlare - che c’era un suo parente, insospettabile. Che sarei potuto stare a casa sua finché le acque non si fossero calmate. Usò quest’espressione. L’uomo viveva da solo. Aveva una camera. Non sarei dovuto uscire di casa. E non c’era posto per l’altro. Lui che a ogni condanna ripeteva “questi qui ci hanno preso per pappagalli”. Dissi di no. Lui mi disse di non fare lo stupido, che se la sarebbe cavata da solo. Che era meglio dividerci. Mi sentì traditore ed infame quando lo vidi andarsene per la strada, le spalle incassate. Si costituì una settimana dopo. Non aveva trovato nessuno che l’aiutasse.”
D’Alessandro dice di rimanere un mese in quel nuovo appoggio. “Poi ricevetti soldi e gioielli – spiega – da una “compagnia”. Uscii e affittai una camera. Prima da una coppia di anziani commercianti della zona della Piramide. Poi in casa di una famiglia della Garbatella.”
Resta a Roma, dice di frequentare ambienti universitari (“partecipai a qualche scontro da spontaneo”). E’ ora di cambiare città
“Sì, presi un treno, stavolta verso il nord. Cambiai a Firenze. Poi non so dove. Arrivai a Trieste. Seppi poi che mi tallonarono fin lì. Bravi: non mi accorsi di nulla. Ma poi a Trieste mi persero di vista. Quello che mi seguiva doveva essere stanco e assonnato, come me, forse più di me.”
Casa dello studente per alcuni giorni. “Cominciai a fabbricarmi una storia, un passato – dice D’Alessandro – Ero Alessio in quei giorni. Seguivo un corteo e una ragazza della mia zona, lontana conoscente e compagna auto esiliata al nord mi riconobbe, mi avvicinò, parlammo. Mi disse che potevano (forse riferito a gruppi anarchici) darmi documenti e dalla Svizzera raggiungere Parigi. Mi dettero un documento. Salii in macchina con un ragazzo che chiacchierando mi portò al valico. Non ricordo nemmeno se i poliziotti ci fermarono o ci dissero di circolare a gesti. Fu rapido. Niente di solenne. Mi ritrovai in Svizzera, a Lugano.”
Da li verso Parigi. “Alla frontiera – dice D’Alessandro - i poliziotti francesi dettero un’occhiata distratta alla mia carta d’identità. Indicarono la mia valigia. La tirai giù dalla reticella. L’aprii. Dettero un’occhiata dentro. Se ne andarono.”
Un appartamento in affitto. “Furono mesi e mesi di bohème. Latitante bohemien, suonava bene” dice Rolando. Mi muovevo ed agivo da solo. Scritte sui muri. Qualche piccolo sabotaggio. Poi traslocai dalla mia mansarda in una stanza di un appartamentino a Gentilly.”
Ma anche Parigi non è sicura per un latitante e poi bisogna guadagnarsi da vivere. “Passavano i mesi – spiega D’Alessandro - ed i soldi dei miei, anche se spartanamente razionati, non potevano durare eternamente. Non avevo molta scelta: lavoro nero o furti e rapine. Di spaccio o prostituzione non ne volevo sapere. D’altra parte nell’illegalità ci sguazzavo.” Fa lavori umili, vive dei lavori più umili D’Alessandro. L’istinto delle sopravvivenza.
Il trasferimento a Barcellona per una bambina che nasce. La bambina di Rolando, deve raggiungere la sua compagna. “Dopo qualche settimana – dice - con lo zaino e le nuove responsabilità sulle spalle, riattraversai il valico, e tornai al lavoro dei campi. Non è stato un discorrere lineare la vita. Consola pensare che in genere nessuna vita lo è. Avevo scelto di lavorare, di fare una vita normale. Ma ero ricercato, non avevo documenti. Sarebbe bastato un controllo, un incidente, anche banale, come quello del compagno di squadra che s’infilò una scheggia di canna in una mano e dopo qualche ora aveva il braccio gonfio da far paura e dovettero portarlo di corsa all’ospedale con il tetano, per far crollare come un castello di carte la vita che avevo messo su.”
Maiorca come rifugio, allora. “L’isola della calma, la chiamano. I controlli per la via erano inesistenti o quasi. La mia compagna dava lezioni private per ripetenti e recitava in una piccola compagnia teatrale. Io montavo esposizioni oppure insegnavo italiano a figli e soprattutto figlie della Palma-bene. Una delle mie alunne era la figlia di un capitano della polizia. Ce la ingegnevamo per pagare affitto, luce, mangiare. Non avevamo vizi cari, ogni tanto una birra con gli amici, un panino al bar. Ogni tantissimo un cinema con la bimba in collo che se ne stava buona buona e poi si addormentava.”
Un soggiorno che durò un anno. “Un anno in cui fui più vicino che mai all’idea che in genere ci si fa, del vivere la gioventù. I lavori che facevo, in confronto con quelli in Francia, erano di tutto riposo. C’era il mare e spiagge ancora incontaminate. Come quella lunghissima di Es Trench, con la pineta che arrivava fino alle dune, lontana da ogni paese.”
Riecco Barcellona: “Il quartiere del “basso” dove vivevamo, un pianterreno un po’ buio ed umido che dava direttamente sulla via, era accanto alla Plaça d’Espanya. Un rione popolare, vicino alla Zona Franca, con le grandi fabbriche della Seat e di altre industrie.”
Anni Novanta, Rolando non è più un ventenne: “La rabbia non svaniva ma si stemperava, come l’odio. Promisi al babbo di stare zitto e in disparte”. Niente scontri, niente pericoli. Ma Rolando resta per così dire un “lottatore”; antifranchista.
“Pochi anni dopo il nostro arrivo a Barcellona cambiammo casa. Il nuovo quartiere era l’Eixample, costruito agli inizi del 900 secondo il Piano Cerdà.”
Poi, siamo a qualche anno fa. Squilla il telefonino. “E’ una voce di casa mia. È quasi un anno che non la sento e per un attimo ho paura che sia la notizia di un altro lutto ed invece mi dice « ciao uomo libero » e mi sento di colpo lacerato, sento proprio il rumore in testa come di un lenzuolo che si strappa, fra l’esultanza di uno che è riuscito a attraversare un campo minato e l’angoscia dell'ergastolano graziato ormai vecchio che con le quattro cose infilate in una borsa di plastica, regalo come tutto il resto di qualche associazione filantropica, se ne resta imbambolato davanti alla porta del carcere, sgomento, frastornato, spaventato da quel mondo che gli scorre davanti troppo veloce. E che vorrebbe, sapendo che non può (non solo farlo, neanche proprio volerlo), rientrare fra le mura e gli odori conosciuti del suo piccolo e domestico inferno ed esita davanti alla voragine di quel che gli resta d'una vita “normale”.
Quella di Rolando D’Alessandro. Che forse un giorno diventerà un libro: “Evado e torno.”
Federico Sciurpa

2 commenti:

  1. Gran bell'articolo, per una vicenda che ha del romanzesco oltre ogni misura. Ne uscirebbe fuori veramente un libro...

    Alessandro

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  2. Può essere Alessandro. Condivido. Grazie per il post

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