AREZZO – In carcere ha tatuato il simbolo della pace. Vorrebbe farsene un altro di tatuaggio Rolando D’Alessandro: un lupo. Il simbolo di più di trent’anni da fuggitivo. E dopo trent’anni passeggia per le vie di Arezzo. “Mi sembra uguale – dice - forse più piccola del ricordo. Sono passati più di trent’anni.”
Cita a memoria Rolando, uno scritto del grande Pietro Aretino:
“... non mi dispererei, come talvolta dispero, d’esserci nato, cresciuto non già, che se ciò per disgrazia avvenivami, sarei un di loro, non me”.
Poi aggiunge verso il carcere: “Tutto è più piccolo che nel ricordo, anche il carcere, con le sue mura sulla via, le torrette rinnovate subito dopo la fuga.
Guardo per un attimo le mura. Da fuori, le finestre con le sbarre, ancora illuminate. Ripenso mentre correvamo nel buio sul terreno bagnato.
Quasi nulla è cambiato, più macchine verso la stazione, gente di pelle scura, accenti diversi. Stesse strade, stessi palazzi aristocratici. Stessa atmosfera di culto al bello, meglio se vendibile, sfruttabile. Senza le esagerazioni di mal gusto di altri territori e paesi.”
Tutto uguale insomma? “Sì, quasi tutto uguale. Perfino i nomi dei politici sono gli stessi.”
Da uomo libero si passa anche per una sorta di “terra di nessuno”.
“Beh, ho passato in effetti giorni sospesi in un limbo. Anche burocratico perché nessuno sa bene cosa bisogna fare per restituirmi lo status di cittadino munito di tessere, carte, numeri, cioè a norma.
“Scusi ma lei dov’è stato in tutti questi anni?” mi chiedono in Comune, “Possibile che non abbia un documento un certificato un permesso di residenza, insomma qualcosa che dimostri che lei è lei?”, insistono.
Eh no, non ho nulla nulla che possa dimostrare che io sono io, a meno che non vogliate le impronte digitali e poi portarle alla polizia, spiego. Ma capisco subito – aggiunge poi - che nessuno vuole far troppo rumore. Intuisco che molti di quelli che incontro sanno chi sono ma non colgo una parola, un gesto, uno sguardo di curiosità, sorpresa. È strano, mi aspettavo l’assedio di qualche giornalista, visite dalla polizia, mormorii al mio passaggio. Invece silenzio, dopo gli abbracci commossi degli amici e dei miei. Meglio così, mi dico.”
Veniamo ai documenti di identità.
“Le impiegate in Comune – dice D’Alessandro - sono gentili ed efficienti. Trovano il modo di darmi una carta d’identità utilizzando l’iter che applicano di solito ai nomadi: un foglio con il nome, una foto, una dichiarazione giurata di due testimoni che dicono che tu sei tu e che vivi dove dici che vivi.”
Poi un salto nel Cortonese.
“Ho ceduto alla tentazione di andare a fare una giratina nei luoghi della mia infanzia e gioventù – ammette - che vorrei poter definire felici. Non sono cambiati granché. Le porte della stazione ora sono d’alluminio. C’è un parcheggio al posto del piazzale e del campetto dove una volta avevano trovato una tartaruga enorme e dove giocavamo al pallone o ad attività come tirarci zolle di terra o palle di neve, a seconda della stagione, con qualcuno che nelle palle ci metteva dentro qualche sassolino che provocava a volte sberci di cuoio capelluto con abbondante spargimento di sangue e cazziatone dei genitori del ferito.”
Ricordi anche di chi non c’è più, la memoria va ai gesti di sempre. “Lo sguardo – ricorda – va su verso le finestre dove si affacciava mia madre a sorvegliare i nostri giochi. Salgo mentalmente su per le scale accarezzando il passamano. Sotto lo zerbino c’è la chiave. Il corridoio e in fondo la cucina a destra, con la grande tavola col ripiano di marmo dove noi si studiava accanto alla mamma che correggeva i compiti o scriveva le relazioni aiutata dal babbo che batteva a macchina, o che fabbricava fiori di carta perché lì c’era la cucina economica e si stava al calduccio. Sul parcheggio ci sono più macchine e lungo le vie del paese più negozi più bar, sembra che più gente. Non mi tolgo gli occhiali da sole e non scendo dalla macchina perché sono io il reprobo, il proscritto. Perché così fu deciso.”
Il pensiero va così al processo. “Sì, vennero ben pochi dei miei compagni ed amici. All’università ancora non ne avevo – dice D’Alessandro - mi ero appena iscritto ed ero un fuorisede cioè uno che doveva andare a venire col treno. C’era poco da socializzare. Quelli del partito dovevano avere ricevuto precisi ordini e da quello che cominciavo a capire erano tutta gente che gli ordini li eseguiva, nella speranza mica tanto segreta di essere poi lì un giorno a impartirli. Non avevo visto nessuno dei compagni della squadra d’atletica poi, ma si sa che a correre, saltare, tirar bocce di ferro e giavellotti non si diventa amici del cuore.”
Ma qualcuno c’era, comunque. “Qualcuno del liceo sì – dice - pochi comunque e fra i pochi il Taddo (lo chiama così ma crediamo che sia un nome di fantasia ndr) che fra l’altro doveva testimoniare a mio favore su uno dei traballanti indizi su cui reggeva la traballantissima logica dell’accusa, sostenuta a malapena dai “potrebbe” di un perito. Il Taddo tenne duro. Lo salutai mentre lo accompagnavano con garbata ma poi mica tanto fermezza fino alla porta. Non l’ho più rivisto.” Anche donne, per la verità, Rolando.
“A salutarmi alla sbarra durante il processo venne la Valentina (anche questo nome crediamo non sia autentico), accompagnata dalla mamma, contenta che non tutti mi avessero abbandonato. Era rossa come la ricordavo a scuola ogni volta che si doveva fare avanti per una interrogazione o l’appello. Timida, graziosa, silenziosa figlia di montanari che in classe se ne stava sempre in disparte con la sua amica Rosina, anche lei giovinetta dai riccioli biondi ed occhi chiari, ignorata però dai ragazzi per il modo di fare riservato e brusco, alla montanara, e i vestiti alla buona. Venivano da cascine lontane e non le vedevamo mai fuori dalle mura del liceo, non legavano molto insomma con il resto, con le loro maglie di lana ruvida i calzettoni tirati su fino al ginocchio.”
Il processo non fu un tiro di schioppo. “La cosa andò avanti diversi giorni – ricorda D’Alessandro - e io, nonostante il timore del verdetto, non vedevo l’ora che tutto finisse. Avevo atteso per quasi due anni quei momenti, convinto che tutto si sarebbe chiarito e mi ero ritrovato invischiato in una sordida pantomima, un gioco delle parti dove tutto era già previsto e scritto.
Ed ora ero stufo di sentirmi come un animale allo zoo, stufo di quella macabra e pacchiana coreografia. Mi umiliarono, mi insultarono. Mi minacciarono e coprirono di fango sentimenti ed emozioni. Con crudeltà che facevo fatica a capire anche dopo tutto quel tempo in galera si accanirono anche contro i miei, colpevoli di non volermi abbandonare. Li chiamarono lupi.”
Poi la sentenza: “Alla fine si ritirarono in camera di consiglio. Molti anni dopo un membro della giuria confessò a un conoscente che erano rimasti quelle ore seduti a girare i pollici ed in silenzio, in attesa che il presidente desse l’ordine di rientrare in aula. La sentenza l’avevano già pronta. Né l’assoluzione né l’ergastolo richiesto dal pubblico ministero. Solo un bel po’ di anni. Erano contadini, quelli della giuria, paesani intimiditi dalla figura dell’autorità, non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello che avrebbero potuto opporsi e dir la loro.”
Condannato, D’Alessandro: “Quattordici anni, dissero e mentre il presidente snocciolava le penne accessorie chiesi ai carabinieri che mi portassero via. Il pubblico rimase in silenzio. Solo una ragazza scoppiò a piangere. Non ho mai saputo chi fosse. Fuori era già buio. Una sera fredda di dicembre. In strada avevano spento le luci dei lampioni e un cordone di poliziotti aveva ributtato indietro a spintoni e manganellate gli amici ed i compagni di mia sorella che avrebbero voluto avvicinarsi a farmi coraggio. La scorta tirava la catena strattonandomi, cercando di farmi abbassare il pugno alzato. “
Perché quel pugno? “Chissà perché ritenni che era un buon momento per intonare l’Internazionale e la cantai a squarciagola. Poi mi spintonarono dentro e allora smisi di cantare e il giorno dopo su un giornale dissero che avevo cantato bandiera rossa e io attribuii deciso lo sbaglio al redattore, anche se c’era pur sempre il fatto che mi avevano buttato fuori da piccolo dal coro parrocchiale che eppure non ci voleva andare nessuno e il prete era sempre alla ricerca di aspiranti cantori. Dentro, nel furgone, per tutto il tragitto ci fu solo silenzio. Né io, né i carabinieri aprimmo la bocca.”
Tre giorni dopo l’evasione. Trent’anni dopo, eccolo qui.
Federico Sciurpa
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