I "fans" di Don Alvaro


Ogni tanto, dovrei farlo più spesso se mi sono imbarcato in un blog tutto mio, apro la posta (elettronica). Con una certa sorpresa ricevo commenti (all'indirizzo personale) ad un articolo pubblicato sul Corriere di Arezzo a metà luglio e inserito in questo blog appena uscito nel cartaceo. Sorpresa solo per i tempi, visto che le e mail arrivano così "in ritardo", sorpreso non certo per il soggetto, che è Don Alvaro Bardelli, il parroco del Duomo. Tuttavia sono andato a rileggere quel mio commento dei giorni del solleone e dico che ci può stare ancora oggi a distanza di mesi. Certo, la notizia è semmai quella di quanto può essere grande l'amore per un persona come Don Alvaro se un articolo viene scovato in un blog che era "semiclandestino" come il mio. Così quell'articolo lo ripropongo, perché parla della storia di un prete di campagna diventato di città e, devo essere franco e spero non presuntuoso, ho ricevuto anche e mail e telefonate al giornale: persone semplici, vere. Per fortuna esistono. Ecco il pezzo del luglio scorso.

 “Accogliamo la volontà del signore”. L’unica possibile, da salutare con un sorriso indulgente, per spiegare questo “giro” di vescovi che porta ad Arezzo un arcivescovo (Fontana), manda Bassetti (il più anziano) a Perugia al posto del pensionato Chiaretti e mette a Spoleto Boccardo (classe ’52, il più giovane) direttamente dal Vaticano. Arezzo perde a inizio ottobre un pastore amatissimo, così come Spoleto con Fontana che saluta con un “obbedisco”. Un disegno divino che porta il nostro monsignor Gualtiero in una terra che – come dice – “non conosco” mentre in Toscana dove ha speso tutta la vita di pastore, sapeva di ogni prete: uno ad uno anche per il suo incarico nazionale nei seminari. Bassetti va in una terra di “santi” dove fra i colleghi vescovi incrocerà, perché sta a Terni, un asso anche nella comunicazione come monsignor Paglia. E comincerà daccapo, alla stregua di Fontana: uno che viene stimato come coraggioso, sempre dentro il tessuto sociale. Un vescovo che non ha paura di schierarsi: ha rimesso su il seminario, rifatto una miriade di chiese, trovato nei temi che hanno diviso la società nella quale ha “lavorato”, anche l’avversione della parte che per dogma politico doveva stare con lui.

Ormai è andata, ma il malcontento di tutti, stavolta, è davvero malcelato. Fra tanti che passano, desideriamo spendere due righe per un pastore che resta. E’ un prete di campagna, diventato da quasi venti anni ormai, il parroco della cattedrale di Arezzo, quello che custodisce la Madonna del Conforto. Parliamo di Don Alvaro Bardelli. Don Alvaro ha fatto in modo – o hanno fatto in modo – che proprio in questi giorni sia finito sulla cassetta della posta del giornale (ben indirizzato), un piccolo libro firmato da lui. Si chiama Le Madonne di mia mamma. Don Alvaro non è solo il prete del Duomo, è uno che sta in mezzo a tutta la gente, è il prete degli sportivi, è l’uomo (ce lo conceda) che sa leggere gli articoli fra le righe e che quando fa le omelie si aggiorna anche con una letta al quotidiano. Don Alvaro sta nel mondo e sa parlare con incisività, senza retorica. Così quel titolo che “attizza”, che pare ambivalente, in realtà non è che un ricordo buttato giù con tratto giornalistico e amorevole, della mamma, morta da poco. Una scomparsa che abbiamo trattato anche noi sul “Corriere”. E’ una lettura spassosa quella che ha realizzato Don Alvaro: come si può essere autobiografici in quaranta paginette parlando di Dio, degli uomini, della città e di se stessi (appunto), raccontando l’amore per la mamma del prete. Quella che di posto si metteva fra due santi in Duomo – come racconta Don Alvaro – per devozione, ma anche per guardare se si portavano via le elemosine. Per chi scrive è il libro più bello e ben scritto dell’ultimo mese. Non sappiamo se è in vendita, se lo ha dato ai suoi parrocchiani: a lui magari, interessava scriverlo e basta per La Giovannina ed è per questo che è fantastico. Comunque va letto, anche solo in una notte. Parlatene a Don Alvaro: almeno lui, in Duomo, lo trovate ancora. Sempre. Con i tempi che corrono non è roba da poco.
Federico Sciurpa

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