Ne valeva la pena?

Le notti aretine di luglio sono belle da vivere. Da sempre. L’aria è frizzante, tanta gente in giro, la musica che suona. Prima c’era Arezzo Wave, adesso il festival che lo ha sostituito si chiama Play Art. Il primo, trasferito con baracca e burattini a Livorno col nome di Italia Wave, è la storia. Il secondo intende diventarlo. I paragoni, le comparazioni, sono sempre scomodi, imbarazzanti; ma in questo caso naturali, perfino necessari vista la linea di continuità. Play Art Festival, al terzo anno, avanza. Cresce nel complesso con una sua identità e struttura ancora da compiersi, ma finisce per essere sempre di più la forma “minimalista” della creatura di Valenti. Rock, teatro, letteratura: sette giorni sulla linea tracciata dai pionieri di Arezzo Wave con la novità che gli appuntamenti vivono nelle piazze, si sposano con la vita della città come successo venerdì con la notte rosa. I prezzi del Play sono modici, qualche grande evento pure gratuito (leggi Sabina Guzzanti) e durante la notte - ci si fa notare - non trovi più ragazzi vestiti male, piercing e orecchini e “cani al giro” (?). Questo Festival insomma, che ha il pregio di coprire in parte il vuoto incolmabile di Arezzo Wave e che si chiude con un bilancio positivo, qualche punto debole ce l’ha.
Il nome intanto, il biglietto da visita: già Play Art è duro da rodere di per sè, se non ci aggiungiamo, magari, un “Festival Arezzo” resta ancora più anonimo: una immagine che finisce per perdersi nei sette giorni dell’evento. A proposito della durata appaiono troppi, dispersivi, i sette giorni di appuntamenti. Insomma: partenza lenta e tante buone cose da “sgassare” qua e la. Dietro ai nomi, offerti a prezzi davvero popolari, stentano a decollare libri e teatro zeppati in un programma complessivo ancora orfano di anima, struttura, identità.
C’è molto da lavorare, in generale, e - finita l’onda emotiva e la sete di rivalsa nei confronti di chi c’era prima - arriverà presto una considerazione amara. Quella che far scappare da questa città Arezzo Wave non ne valeva la pena. Questione di realismo, buona volontà, non certo di nostalgia. Sessantamila presenze in quattro giorni a Livorno, zero atti di vandalismo, il padre di Woodstock (il festival più famoso nel mondo, 1969) che entra nella Fondazione che si chiama Arezzo Wave. Italia Wave funziona, sradicata dalla città dove è stata pensata, coltivata, si è affermata contro tutto. Anche il Play, si dirà. Cresce, si fa valere. Risultato consolatorio di una guerra inutile dove a rimetterci - non sappiamo per quanti denari, sul momento - è stato solo il nome di Arezzo. E al di là degli applausi di una notte, quello interessa.
Federico Sciurpa

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